Pantaleo Corvino,il talent scout senza squadra: "Nel '98 portai Miccoli al Lecce"

24.07.2013 12:18 di  Redazione FS24  Twitter:    vedi letture
Fonte: Giovanni Camarda -www.quotidianodipuglia.it
Pantaleo Corvino,il talent scout senza squadra: "Nel '98 portai Miccoli al Lecce"

Nel 2005 chiuse la sua esperienza in giallorosso, con il Lecce in A, dopo aver ceduto Bojinov per 15 milioni di euro e lasciando in organico Ledesma (poi venduto per 5 milioni di euro), Vucinic (ceduto a 22), Pellé (7), Esposito (4,5), Rosati e Rullo (7 in tutto). Tutti ragazzi cresciuti nel vivaio. A febbraio del 2012, a pochi punti dalla zona Europa League, se n’è andato invece da Firenze dopo aver scoperto Nastasic (acquistato a 2,5 e rivenduto a 25 milioni più Savic, totale circa 30), Jovetic (preso a 8 e ceduto a 31), Cerci (4 per l’acquisto, poi passato al Toro per 8,5), Behrami (arrivato per 2 milioni, 10 presi dal Napoli), Seferovic (acquistato a 1,8 contro i 3,8 incassati dai viola). 
Oggi però Pantaleo Corvino è senza squadra. Nel calcio dei proprietari che s’inventano manager, non c’è spazio evidentemente per i direttori sportivi, almeno non per quelli che una volta si occupavano a 360° della gestione di una squadra. Adesso va diversamente: i padroni si sono stancati di stare dietro le quinte e hanno deciso che è meglio apparire. Tanto, è il ragionamento, i soldi sono i nostri e allora almeno ci togliamo la soddisfazione di stare sotto i riflettori. Così i risultati - gestionali e sportivi - diventano solo un dettaglio.
Normale, di conseguenza, che in questo calcio uno come Pantaleo Corvino resti in disparte, a dispetto di un curriculum che in Italia nessuno può vantare. Ha fatto miracoli ovunque, dal Casarano alla Fiorentina, eppure è fuori, anche un po’ per scelta, avendo avuto diverse proposte per rientrare (alla Samp, per esempio, prima dell’arrivo di Osti) declinandole tutte.
Perché, Corvino? 
«Perché guardo al futuro partendo da quello che ho fatto nel passato. Il mio percorso finora è stato sempre in crescendo, dalla Terza categoria alle quattro qualificazioni in Champions con la Viola. Adesso mi manca una squadra che possa puntare al titolo, allo scudetto. Mi manca solo quello».
Tutti posti occupati, più dai patron che dai suoi colleghi. A parte Marotta, alla Juve dopo essere arrivato in Champions una sola volta con la Samp. Poi all’Inter c’è Moratti, al Milan Galliani, alla Roma gli americani, a Napoli De Laurentiis, Lotito alla Lazio, Preziosi al Genoa: figure che occupano la scena e, in qualche modo, mettono in un angolino i propri diesse...
«Eppure nelle loro aziende questi grandi imprenditori scelgono i migliori manager sul mercato. Strano...».
Intanto, nonostante sia fermo da un anno e mezzo, sul mercato i pezzi pregiati sono ancora sue scommesse. Jovetic è andato al City per 31 milioni, Ljajic è un altro in rampa di lancio, Osvaldo lo vuole mezza Europa, su Vucinic c’è il City. Li ha scoperti lei...
«Credo di aver fatto bene il mio lavoro, ovunque. Poi, è chiaro, non sono infallibile, però posso dire con assoluta certezza di aver dato tanto ai club per i quali ho lavorato, in termini economici e sportivi».
Ne ha scoperti moltissimi, di talenti. Il più grande?
«Farei torto a qualcuno e non sarebbe giusto. A Casarano portai Miccoli, Orlandoni, Passoni, D’Aversa, Di Cesare; a Lecce Ledesma, Vucinic, Bojinov, Chevanton, Sesa, Lucarelli, Lima; a Firenze Jovetic, Ljajic, Nastasic. Ce ne sarebbero altri, l’elenco è lungo».
Rimpianti per come è finita a Firenze?
«L’unico cruccio è legato alle motivazioni che mi hanno spinto a mollare: la malattia che ha poi portato alla morte mia mamma a febbraio, con la squadra a pochi punti dalla zona Europa dopo aver battuto Siena e Udinese. Per il resto, sono convinto di aver lasciato un ottimo ricordo alla piazza viola. Abbiamo fatto cose incredibili, in Italia e in Europa. Ho ancora il magone per come finì quel doppio confronto con il Bayern negli ottavi, viziato da un gol regolarissimo che ci fu annullato nella gara di andata a Monaco. Senza quel torto subìto, probabilmente saremmo arrivati nei quarti di Champions. Era l’aprile del mio quinto anno in viola: lottavamo per la Champions, poi affrontammo l’Inter di Mourinho in semifinale di Coppa Italia».
Quanto le brucia star fuori?
«In questo momento è un calcio fatto così, a mio avviso senza grandi prospettive. Sta diventando più spettacolo che sport, è show business senza troppo criterio. Non penso possa durare molto».
A un certo punto si era fatta insistente anche la voce di un suo possibile coinvolgimento nel Lecce. Che cosa c’era di vero?
«Io sono un direttore sportivo, nel calcio è giusto che a guidare i club siano gli imprenditori. Lecce è un pezzo del mio cuore, ci sono stato per 7 anni: per questo dico che se un domani non ci dovessero essere più imprenditori, certamente la società non rimarrebbe orfana».
Proprio il Lecce è una di quelle società che non ritiene di doversi avvalere di un direttore sportivo. Che cosa ne pensa?
«Io dico che a Lecce il calcio ha una storia, non è cominciato ieri o l’anno scorso. Quarant’anni in cui l’Italia ha ammirato prima il Lecce di Jurlano e Cataldo, poi quello di Semeraro e Corvino. Abbiamo scritto pagine indimenticabili, per quanto mi riguarda, con le salvezze in serie A e con i sette titoli giovanili. Questo è stato il Lecce per quarant’anni».
Una società che operava in un certo modo. Adesso ce n’è un’altra e opera diversamente, spesso puntando su giocatori svincolti come Miccoli, la sua prima grande scoperta. Impressioni?
«Si dice che ogni strada porti a Roma. La nostra ha maturato quei risultati, mi auguro che anche quella attuale porti a raggiungere traguardi importanti. Miccoli? Sta attraversando un momento particolare, difficile. Me ne dispiace veramente. E comunque io non voglio credere a quello che si dice di Fabrizio, lui è un bravo ragazzo».
Che lei aveva acquistato per il Lecce nel ’98. Ricorda quella trattativa?
«L’accordo era stato raggiunto, era tutto fatto. Era una situazione molto particolare perché l’allora presidente del Casarano, il compianto Filograna, mai avrebbe accettato quell’operazione. Bisognava usare un certo tatto, pregai Fabrizio e suo padre di non fare parola con nessuno. Portai Miccoli negli uffici Apisem di via Taranto dove firmò per cinque anni; solo che il giorno dopo la notizia venne fuori su un quotidiano nazionale e il Casarano presentò denuncia. Quella è stata l’unica volta in cui sono finito davanti ad un giudice dell’Ufficio Inchieste. Ricordo che mi interrogò la mattina della gara con il Milan. L’affare sfumò e poi Miccoli passò alla Ternana». 
Che storia, tra lei e Miccoli...
«Nessuno più di me ha creduto in Miccoli. Lo presi che aveva 12 anni e a 16 lo imposi a Cadregari come titolare nel Casarano. Il tecnico mi chiedeva di acquistare un altro attaccante ma io volevo che puntasse su Fabrizio. Allora Cadregari, nell’ultima amichevole prima del debutto, a Nardò, lo lasciò in panchina per lanciarmi un segnale: alla fine del primo tempo perdevamo 4-0. Andai da lui e gli ribadii: tu puoi anche non farlo giocare, ma io non compro nessuno. Nella ripresa entrò Miccoli e pareggiammo 4-4, con quattro suoi gol. E la domenica, alla prima di campionato, fece gol contro l’Ancona. Lo proponevo a tutti i club italiani ma mi sbattevano sempre la porta in faccia».
Adesso non ci sono più rapporti tra di voi. Perchè?
«Perché lui ritiene che io non abbia voluto riscattarlo quando eravamo a Firenze. In realtà, la Fiorentina aveva già speso una cifra importante per acquistare la sua metà dalla Juve, non potevo andare oltre e chiesi ai bianconeri di lasciarmelo ancora per un anno in comproprietà. La Juve rispose: o lo prendi tutto o niente. Andammo alle buste e lo perdemmo per 200mila euro: non avevo nel mio budget iniziale altri 7 milioni. Capita spesso, nel calcio come nella vita, che dopo aver fatto 99 cose buone, si prenda in considerazione solo la centesima che magari è riuscita meno bene».
Ce la fa il Lecce a salire quest’anno?
«Il mio auguro è rivedere i giallorossi ai massimi livelli».
Momento di depressione per il calcio dell’area jonico-salentina. Come se ne esce?
«La crisi c’è, inutile negarlo. Realtà come il Taranto, il Martina, il Brindisi, il Nardò, mancano al calcio nazionale, per non dire del Casarano dove ho passato undici anni della mia vita. Spero che possano trovare la forza per rilanciarsi e tornare dove meritano».Nel 2005 chiuse la sua esperienza in giallorosso, con il Lecce in A, dopo aver ceduto Bojinov per 15 milioni di euro e lasciando in organico Ledesma (poi venduto per 5 milioni di euro), Vucinic (ceduto a 22), Pellé (7), Esposito (4,5), Rosati e Rullo (7 in tutto). Tutti ragazzi cresciuti nel vivaio. A febbraio del 2012, a pochi punti dalla zona Europa League, se n’è andato invece da Firenze dopo aver scoperto Nastasic (acquistato a 2,5 e rivenduto a 25 milioni più Savic, totale circa 30), Jovetic (preso a 8 e ceduto a 31), Cerci (4 per l’acquisto, poi passato al Toro per 8,5), Behrami (arrivato per 2 milioni, 10 presi dal Napoli), Seferovic (acquistato a 1,8 contro i 3,8 incassati dai viola). 
Oggi però Pantaleo Corvino è senza squadra. Nel calcio dei proprietari che s’inventano manager, non c’è spazio evidentemente per i direttori sportivi, almeno non per quelli che una volta si occupavano a 360° della gestione di una squadra. Adesso va diversamente: i padroni si sono stancati di stare dietro le quinte e hanno deciso che è meglio apparire. Tanto, è il ragionamento, i soldi sono i nostri e allora almeno ci togliamo la soddisfazione di stare sotto i riflettori. Così i risultati - gestionali e sportivi - diventano solo un dettaglio.
Normale, di conseguenza, che in questo calcio uno come Pantaleo Corvino resti in disparte, a dispetto di un curriculum che in Italia nessuno può vantare. Ha fatto miracoli ovunque, dal Casarano alla Fiorentina, eppure è fuori, anche un po’ per scelta, avendo avuto diverse proposte per rientrare (alla Samp, per esempio, prima dell’arrivo di Osti) declinandole tutte.
Perché, Corvino? 
«Perché guardo al futuro partendo da quello che ho fatto nel passato. Il mio percorso finora è stato sempre in crescendo, dalla Terza categoria alle quattro qualificazioni in Champions con la Viola. Adesso mi manca una squadra che possa puntare al titolo, allo scudetto. Mi manca solo quello».
Tutti posti occupati, più dai patron che dai suoi colleghi. A parte Marotta, alla Juve dopo essere arrivato in Champions una sola volta con la Samp. Poi all’Inter c’è Moratti, al Milan Galliani, alla Roma gli americani, a Napoli De Laurentiis, Lotito alla Lazio, Preziosi al Genoa: figure che occupano la scena e, in qualche modo, mettono in un angolino i propri diesse...
«Eppure nelle loro aziende questi grandi imprenditori scelgono i migliori manager sul mercato. Strano...».
Intanto, nonostante sia fermo da un anno e mezzo, sul mercato i pezzi pregiati sono ancora sue scommesse. Jovetic è andato al City per 31 milioni, Ljajic è un altro in rampa di lancio, Osvaldo lo vuole mezza Europa, su Vucinic c’è il City. Li ha scoperti lei...
«Credo di aver fatto bene il mio lavoro, ovunque. Poi, è chiaro, non sono infallibile, però posso dire con assoluta certezza di aver dato tanto ai club per i quali ho lavorato, in termini economici e sportivi».
Ne ha scoperti moltissimi, di talenti. Il più grande?
«Farei torto a qualcuno e non sarebbe giusto. A Casarano portai Miccoli, Orlandoni, Passoni, D’Aversa, Di Cesare; a Lecce Ledesma, Vucinic, Bojinov, Chevanton, Sesa, Lucarelli, Lima; a Firenze Jovetic, Ljajic, Nastasic. Ce ne sarebbero altri, l’elenco è lungo».
Rimpianti per come è finita a Firenze?
«L’unico cruccio è legato alle motivazioni che mi hanno spinto a mollare: la malattia che ha poi portato alla morte mia mamma a febbraio, con la squadra a pochi punti dalla zona Europa dopo aver battuto Siena e Udinese. Per il resto, sono convinto di aver lasciato un ottimo ricordo alla piazza viola. Abbiamo fatto cose incredibili, in Italia e in Europa. Ho ancora il magone per come finì quel doppio confronto con il Bayern negli ottavi, viziato da un gol regolarissimo che ci fu annullato nella gara di andata a Monaco. Senza quel torto subìto, probabilmente saremmo arrivati nei quarti di Champions. Era l’aprile del mio quinto anno in viola: lottavamo per la Champions, poi affrontammo l’Inter di Mourinho in semifinale di Coppa Italia».
Quanto le brucia star fuori?
«In questo momento è un calcio fatto così, a mio avviso senza grandi prospettive. Sta diventando più spettacolo che sport, è show business senza troppo criterio. Non penso possa durare molto».
A un certo punto si era fatta insistente anche la voce di un suo possibile coinvolgimento nel Lecce. Che cosa c’era di vero?
«Io sono un direttore sportivo, nel calcio è giusto che a guidare i club siano gli imprenditori. Lecce è un pezzo del mio cuore, ci sono stato per 7 anni: per questo dico che se un domani non ci dovessero essere più imprenditori, certamente la società non rimarrebbe orfana».
Proprio il Lecce è una di quelle società che non ritiene di doversi avvalere di un direttore sportivo. Che cosa ne pensa?
«Io dico che a Lecce il calcio ha una storia, non è cominciato ieri o l’anno scorso. Quarant’anni in cui l’Italia ha ammirato prima il Lecce di Jurlano e Cataldo, poi quello di Semeraro e Corvino. Abbiamo scritto pagine indimenticabili, per quanto mi riguarda, con le salvezze in serie A e con i sette titoli giovanili. Questo è stato il Lecce per quarant’anni».
Una società che operava in un certo modo. Adesso ce n’è un’altra e opera diversamente, spesso puntando su giocatori svincolti come Miccoli, la sua prima grande scoperta. Impressioni?
«Si dice che ogni strada porti a Roma. La nostra ha maturato quei risultati, mi auguro che anche quella attuale porti a raggiungere traguardi importanti. Miccoli? Sta attraversando un momento particolare, difficile. Me ne dispiace veramente. E comunque io non voglio credere a quello che si dice di Fabrizio, lui è un bravo ragazzo».
Che lei aveva acquistato per il Lecce nel ’98. Ricorda quella trattativa?
«L’accordo era stato raggiunto, era tutto fatto. Era una situazione molto particolare perché l’allora presidente del Casarano, il compianto Filograna, mai avrebbe accettato quell’operazione. Bisognava usare un certo tatto, pregai Fabrizio e suo padre di non fare parola con nessuno. Portai Miccoli negli uffici Apisem di via Taranto dove firmò per cinque anni; solo che il giorno dopo la notizia venne fuori su un quotidiano nazionale e il Casarano presentò denuncia. Quella è stata l’unica volta in cui sono finito davanti ad un giudice dell’Ufficio Inchieste. Ricordo che mi interrogò la mattina della gara con il Milan. L’affare sfumò e poi Miccoli passò alla Ternana». 
Che storia, tra lei e Miccoli...
«Nessuno più di me ha creduto in Miccoli. Lo presi che aveva 12 anni e a 16 lo imposi a Cadregari come titolare nel Casarano. Il tecnico mi chiedeva di acquistare un altro attaccante ma io volevo che puntasse su Fabrizio. Allora Cadregari, nell’ultima amichevole prima del debutto, a Nardò, lo lasciò in panchina per lanciarmi un segnale: alla fine del primo tempo perdevamo 4-0. Andai da lui e gli ribadii: tu puoi anche non farlo giocare, ma io non compro nessuno. Nella ripresa entrò Miccoli e pareggiammo 4-4, con quattro suoi gol. E la domenica, alla prima di campionato, fece gol contro l’Ancona. Lo proponevo a tutti i club italiani ma mi sbattevano sempre la porta in faccia».
Adesso non ci sono più rapporti tra di voi. Perchè?
«Perché lui ritiene che io non abbia voluto riscattarlo quando eravamo a Firenze. In realtà, la Fiorentina aveva già speso una cifra importante per acquistare la sua metà dalla Juve, non potevo andare oltre e chiesi ai bianconeri di lasciarmelo ancora per un anno in comproprietà. La Juve rispose: o lo prendi tutto o niente. Andammo alle buste e lo perdemmo per 200mila euro: non avevo nel mio budget iniziale altri 7 milioni. Capita spesso, nel calcio come nella vita, che dopo aver fatto 99 cose buone, si prenda in considerazione solo la centesima che magari è riuscita meno bene».
Ce la fa il Lecce a salire quest’anno?
«Il mio auguro è rivedere i giallorossi ai massimi livelli».
Momento di depressione per il calcio dell’area jonico-salentina. Come se ne esce?
«La crisi c’è, inutile negarlo. Realtà come il Taranto, il Martina, il Brindisi, il Nardò, mancano al calcio nazionale, per non dire del Casarano dove ho passato undici anni della mia vita. Spero che possano trovare la forza per rilanciarsi e tornare dove meritano».